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   Con questa  sentenza del 2004 la Corte di Cassazione conferma  l'indirizzo restrittivo, che limita sino a non oltre il 1.1.1948 l'efficacia retroattiva delle decisioni della Corte Costituzionale che avevano dichiarato l'illegittimità parziale degli art. 1 e 10 della legge n. 555 del 1912. Inoltre, la Corte di Cassazione attribuisce valore costitutivo, oppure dichiarativo, alla dichiarazione di riacquisto della cittadinanza ex art. 219 legge 151 del 1975, a seconda che questa dichiarazione sia stata resa da donna che aveva perduto la cittadinanza prima o dopo il 1948.  
   In alcuni casi tuttavia, da esaminare singolarmente, l'indirizzo della Corte di cassazione può essere superato.

CITTADINANZA

Cass. civ. Sez. Un. 19 febbraio 2004, n. 3331


Svolgimento del processo


    Con atto di citazione notificato il 4 dicembre 1998 Simon Telvi, nato ad Istanbul il 29 agosto 1949, ed Izak Telvi, nato ad Istanbul il 31 agosto 1953, convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma il Ministero dell'Interno, chiedendo che si dichiarasse che la loro madre Lea Elisa Lilly Miss, cittadina italiana alla nascita - la quale a seguito di matrimonio con un cittadino turco contratto il 15 gennaio 1947 aveva acquistato, secondo l'art. 10 comma 3 della legge 13 giugno 1912 n. 555 all'epoca vigente, la cittadinanza turca perdendo quella italiana - aveva in realtà conservato la cittadinanza italiana, in forza della sentenza della Corte Costituzionale n. 87 del 1975, dichiarativa dell'incostituzionalità della norma suindicata, e che pertanto essi attori erano cittadini italiani dalla nascita, per effetto della ulteriore sent. n. 30 del 1983 della stessa Corte Costituzionale, che aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1. comma 1, n. 1, della legge 13 giugno 1912 n. 555 citata, nella parte in cui non prevedeva che fosse cittadino per nascita anche il figlio di madre cittadina.

Nella contumacia dell'Amministrazione convenuta il Tribunale, con sentenza del 19 novembre 1999 - 15 febbraio 2000, rigettava la domanda, osservando che l'efficacia delle sentenze della Corte Costituzionale in ordine alle leggi emanate prima dell'entrata in vigore della Costituzione non retroagisce oltre il 1 gennaio 1948 e che pertanto la Miss aveva legittimamente perso la cittadinanza con il matrimonio nell'anno 1947 senza più riacquistarla.

L'impugnazione proposta da Simon ed Izak Telvi era rigettata dalla Corte di Appello di Roma con sentenza del 4-27 aprile 2001.

In detta pronuncia la Corte territoriale richiamava la sent. n. 12061 del 1998 di queste sezioni unite che, pronunciando in analoga fattispecie, aveva definito diritto vivente il principio che l'efficacia retroattiva delle sentenze di incostituzionalità sin dal momento dell'entrata in vigore delle relative norme trova piena applicazione solo con riferimento alle norme incostituzionali "ab initio", mentre ove la collisione delle norme stesse con i parametri costituzionali si sia verificata successivamente alla loro entrata in vigore il termine di decorrenza degli effetti di dette sentenze coincide con il momento in cui il vizio di incostituzionalità si è concretizzato, ossia, con riferimento alle leggi anteriori alla Costituzione, con la data del 1 gennaio 1948.

In adesione a tale principio la Corte di merito riteneva che la Miss avesse perso la cittadinanza italiana con il matrimonio senza più riacquistarla, non risultando che avesse presentato la dichiarazione prevista dall'art. 219 della L. n. 151 del 1975 (legge di riforma del diritto di famiglia) e che pertanto i figli non avessero mai assunto, né potessero assumere la cittadinanza richiesta.

Avverso tale sentenza Simon ed Izak Telvi hanno proposto ricorso per Cassazione sulla base di un unico motivo. L'Amministrazione intimata non ha svolto attività difensiva.

Assegnato il ricorso alla prima sezione di questa Corte, con ordinanza del 1 aprile 2003 il Collegio, rilevato che il ricorso stesso prospettava una questione di massima di particolare importanza, disponeva la trasmissione degli atti al Primo Presidente perché valutasse l'opportunità della assegnazione alle sezioni unite.

Il ricorso era quindi assegnato a queste sezioni unite ai sensi dell'art. 374 c.p.c. La difesa dei ricorrenti ha infine depositato memoria.


Motivi della decisione


Con l'unico motivo di ricorso, denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto, insufficienza, omissione e contraddittorietà di motivazione, i ricorrenti, richiamando gli orientamenti espressi nelle pronunce n. 6297 e 10086 del 1996 e n. 15062 del 2000 di questa Corte, censurano la sentenza impugnata per aver negato applicazione alla sentenza della Corte Costituzionale n. 30 del 1983, stante la natura imprescrittibile dello "status civitatis". Deducono altresì l'irrilevanza, ai fini della conservazione dello stato di cittadina italiana della propria madre, dell'omessa dichiarazione di cui all'art. 219 della legge n. 151 del 1975, spiegando detta norma effetti soltanto sul piano amministrativo, ai fini del concreto esercizio dei diritti connessi allo stato di cittadino.

La questione di massima di particolare importanza che il ricorso solleva attiene alla titolarità della cittadinanza del soggetto nato da cittadina italiana che abbia perso la cittadinanza a seguito di matrimonio contratto con uno straniero anteriormente all'entrata in vigore della Costituzione, per acquisire quella del marito, avendo riguardo alla sent. n. 87 del 1975 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l'illegittimità, per contrasto con gli artt. 3 e 29 Cost., dell'art. 10 comma 3 della legge 13 giugno 1912 n. 555, nella parte in cui prevedeva la perdita della cittadinanza italiana a seguito di matrimonio con cittadino straniero indipendentemente dalla volontà della donna, sempre che il marito possedesse una cittadinanza che per effetto del matrimonio si comunicasse alla moglie, ed alla successiva sent. n. 30 del 1983, dichiarativa dell'illegittimità, per contrasto con i medesimi parametri costituzionali, dell'art. 1, comma 1 n. 1 della stessa legge, nella parte in cui non prevedeva che fosse cittadino italiano per nascita anche il figlio di madre cittadina.

Più specificamente, la questione sulla quale queste sezioni unite sono chiamate a pronunciare attiene alla possibilità di considerare cittadino italiano "iure sanguinis", ai sensi dell'art. 1; comma 1 n. 1 della legge n. 555 del 1912, nel testo risultante dalla richiamata sentenza della Corte Costituzionale n. 30 del 1983, il soggetto figlio di madre italiana che anteriormente alla sua nascita abbia perso la cittadinanza per matrimonio contratto prima della entrata in vigore della Costituzione, in forza della norma successivamente dichiarata illegittima, e pertanto postula - fondandosi il reclamo da parte degli attori dello status di cittadini italiani sul presupposto di essere figli di cittadina italiana al momento della loro nascita - l'accertamento dello "status civitatis" della madre a tale data, in relazione alla pronuncia della Corte Costituzionale n. 87 del 1975.

Tale fattispecie non trova esplicita disciplina nella legislazione intervenuta successivamente alle richiamate sentenze di incostituzionalità, atteso che la legge di riforma del diritto di famiglia, ispirata al principio fondamentale di parità tra i coniugi, si è limitata ad introdurre all'art. 143-ter c.c. la nuova norma (poi abrogata dall'art. 26 della legge 5 febbraio 1992 n. 91) per cui la perdita della cittadinanza da parte della donna che acquisti una cittadinanza straniera per effetto di matrimonio o di mutamento della cittadinanza da parte del marito è condizionata alla sua espressa rinunzia, ed a disporre all'art. 219 comma 1 L. n. 151 del 1975 che la donna che per effetto di matrimonio con lo straniero o di mutamento di cittadinanza da parte del marito ha perduto la cittadinanza italiana prima dell'entrata in vigore della stessa legge la riacquista con dichiarazione resa all'autorità competente a norma dell'art. 36 disp.att.c.c. (tale disposizione, impropriamente definita transitoria, non contenendo alcun termine per la presentazione della prevista dichiarazione, è stata espressamente mantenuta in vigore dall'art. 17 comma 2 della legge 5 febbraio 1992 n. 91).

La successiva legge 21 aprile 1983 n. 123 ha segnato un ulteriore passo in attuazione dei principi costituzionali della parità tra i sessi e tra i coniugi, anche in relazione alla trasmissione della cittadinanza, in particolare prevedendo all'art. 5 (comma 1, in evidente adesione alla pronuncia n. 30 del 1983 del giudice delle leggi, appena intervenuta, che è cittadino italiano il figlio minorenne, anche adottivo, di padre cittadino o di madre cittadina, ma ha appunto limitato tale riconoscimento ai figli minori e con decorrenza dalla sua entrata in vigore, ponendo altresì al comma 2 un obbligo di opzione (poi soppresso dall'art. 26 della legge n. 91 del 1992) per i soggetti titolari di doppia cittadinanza al compimento della maggiore età.

Infine, la legge organica in materia di cittadinanza del 5 febbraio 1992, n. 91 ha stabilito all'art. 1, comma 1 lett. a) che è cittadino per nascita il figlio di padre o di madre cittadini, senza peraltro dettare alcuna disposizione attributiva in via transitoria ai figli maggiorenni di madre italiana che avesse perso la cittadinanza sulla base della previgente normativa della facoltà di manifestare una volontà diretta all'acquisto della originaria cittadinanza materna, ed ha inoltre escluso che la nuova disciplina abbia effetti retroattivi (art. 20).

Come è noto, sulla questione relativa ai limiti temporali di efficacia della sent. n. 87 del 1975 è intervenuta questa Suprema Corte con la risalente pronuncia n. 903 del 1978, negando che essa spieghi effetti con riferimento ai fatti estintivi della cittadinanza verificatisi prima del 1 gennaio 1948, per essere questi legittimamente regolati dalla legge del tempo; più di recente le sezioni unite con la sent. n. 12061 del 1998 hanno ribadito il principio, consolidato nella giurisprudenza di legittimità e definito diritto vivente, secondo il quale F efficacia retroattiva di una sentenza dichiarativa della illegittimità costituzionale di una norma sin dal momento in cui essa sia entrata in vigore trova piena applicazione soltanto con riferimento alla categoria delle norme che si rivelino incostituzionali "ab initio", mentre ove la pronuncia di illegittimità abbia ad oggetto una norma contenuta in una legge anteriore alla Costituzione e trovi ragione nel sopravvenuto contrasto con norme o principi della Carta fondamentale, così da delinearsi una ipotesi definita, con espressione non del tutto puntuale, di incostituzionalità sopravvenuta, gli effetti della sentenza stessa, anche rispetto ai rapporti ancora pendenti, non possono retroagire oltre il momento in cui detto contrasto si è verificato.

In applicazione di tale principio si è affermato nella richiamata decisione che, non potendo gli effetti della sent. n. 87 del 1975 retroagire oltre la data del 1 gennaio 1948, la pronuncia di incostituzionalità non ha travolto il fatto estintivo della cittadinanza costituito dal matrimonio contratto da cittadina italiana prima di tale data, ma ha prodotto il diverso e limitato risultato di attribuire alla donna il diritto di riacquistare, ove lo voglia, la cittadinanza cessata.

Le sezioni unite hanno così chiaramente disatteso l'orientamento espresso dalle sentenze della prima sezione n. 6297 e n. 10086 del 1996, concernenti fattispecie analoghe, ma non perfettamente coincidenti con quella dalle stesse sezioni unite esaminata, che avevano per converso affermato che per effetto delle pronunce della Corte Costituzionale n. 87 del 1975 e n. 30 del 1983 fossero state definitivamente rimosse le ragioni, rispettivamente, della perdita da parte della madre e del mancato acquisto da parte dei figli della cittadinanza italiana, verificatisi in forza delle disposizioni dichiarate incostituzionali, ritenendo che la cessazione di efficacia "erga omnes" con effetto retroattivo delle leggi dichiarate incostituzionali, pur se precedenti l'entrata in vigore della Costituzione, implicasse il divieto di applicazione relativamente a situazioni o rapporti cui esse sarebbero stata ancora applicabili ove non fosse intervenuta la pronuncia di incostituzionalità.

Peraltro la successiva sent. n. 15062 del 2000 della stessa prima sezione, redatta dal medesimo estensore delle richiamate decisioni n. 6297 e 10086 del 1996, pronunziando in analoga fattispecie di reclamo della cittadinanza da parte di figli di una donna che aveva perso la cittadinanza a seguito di matrimonio contratto prima del 1 gennaio 1948 con uno straniero, preso atto del riaffermato orientamento giurisprudenziale circa i limiti temporali all'efficacia retroattiva delle sentenze dichiarative della incostituzionalità di leggi anteriori alla Costituzione, non ha posto ulteriormente in discussione tale profilo del dibattito, ma ha centrato la propria disamina - approfondendo alcuni spunti argomentativi già affioranti nelle precedenti pronunce - sul problema se in relazione allo "status civitatis" la naturale efficacia retroattiva delle sentenze di incostituzionalità incontri il generale limite temporale del rapporto irretrattabilmente chiuso o esaurito.

In tale prospettiva, sulla premessa che la qualificazione di una situazione o di un rapporto come esaurito non può mai fondarsi sulla norma dichiarata costituzionalmente illegittima, atteso che attraverso detta qualificazione continuerebbe ad applicarsi la norma dichiarata incostituzionale, in aperta violazione del divieto stabilito dal combinato disposto degli art. 136 Cost., comma 1, e 30, comma 3, della legge n. 87 del 1953, si è osservato in detta decisione che lo "status civitatis", quale elemento costitutivo della persona costituzionalmente riconosciuto e garantito, è per sua natura assoluto, indisponibile ed inesauribile, e quindi fonte inestinguibile della distinta titolarità delle situazioni giuridiche che lo presuppongono, come tale giustiziabile in ogni tempo in cui rilevi il suo accertamento o la sua tutela, almeno fino al momento in cui non sia intervenuta una statuizione giurisdizionale definitiva opponibile all'efficacia retroattiva della dichiarazione di incostituzionalità. Si è pertanto argomentato che ogni modificazione dell'ordinamento giuridico che incida sulla disciplina dello status non può non esplicare effetti nei confronti di tutti coloro cui detta posizione compete, a prescindere da ogni riferimento temporale, così che detto status resta conformato dalla disciplina risultante da ogni intervento demolitorio della Corte Costituzionale, rilevando ai fini dell'acquisto della cittadinanza per nascita non già l'evento nascita, costituente mero presupposto della fattispecie acquisitivi ma la situazione di filiazione da padre o madre cittadini, ed ai fini della perdita della cittadinanza della donna coniugata a cittadino straniero non già l'evento matrimonio, ma l'essere moglie di uno straniero, senza riguardo alla data delle nozze. Seguendo tale percorso argomentativo la richiamata sentenza ha conclusivamente ritenuto che l'efficacia congiunta della pronuncia di incostituzionalità della norma che prevedeva la perdita della cittadinanza per matrimonio e di quella che non prevedeva che fosse cittadino per nascita anche il figlio di madre cittadina avesse inciso sullo "status civitatis "di tutte le donne già cittadine che avevano perduto la cittadinanza in conseguenza del matrimonio e di tutti i figli di madre cittadina che non avevano acquistato il corrispondente stato di cittadini in forza di una legge incostituzionale, ed avesse determinato la riespansione di detto status dal 1 gennaio 1948. Ed è sulla problematica che tale impostazione involge che va focalizzata l'analisi in questa sede, dovendo considerarsi ormai acquisito il principio, espresso dalla costante giurisprudenza di questa Corte (v. tra le altre, S.U. 1963 n. 1707; Cass. 1963 n. 2702; 1969 n. 1959; 1970 n. 1568; 1971 n. 2222; 1972 n. 1287; 1974 n. 2022; 1978 n. 903; 1980 n. 2565), recepito nella prassi amministrativa e ribadito infine nella richiamata sentenza di queste sezioni unite, secondo il quale le leggi anteriori alla Costituzione perdono efficacia, per effetto di pronunce di incostituzionalità, dalla data di entrata in vigore della Costituzione, non potendo il giudizio di difformità rispetto al parametro costituzionale svolgersi oltre il momento in cui l'antinomia si è verificata e dovendo quindi la pronuncia di incostituzionalità arrestarsi al tempo di insorgenza del conflitto. Sulle stesse posizioni è peraltro ancorata larga parte della dottrina, che, superati i dubbi inizialmente suscitati dalla diversa formulazione letterale degli art. 136 Cost., comma 1, e 30, comma 3, della legge n. 87 del 1953. è orientata a ritenere - pur nella persistenza di autorevoli voci discordi, presenti a queste sezioni unite - che le sentenze di incostituzionalità esplichino effetti sin dal momento in cui l'incompatibilità con la norma costituzionale si è verificata, e che pertanto la data del 1 gennaio 1948 costituisca l'ultimo approdo della loro retroattività, mancando nel periodo che va dall'entrata in vigore della legge impugnata fino all'entrata in vigore della norma costituzionale assunta come parametro il termine di raffronto ai fini del giudizio di legittimità.

Né vi è ragione in questa sede di affrontare il dibattito se il generale limite temporale di efficacia innanzi richiamato debba cedere a fronte della lesione ad opera di leggi anteriori alla Costituzione di diritti fondamentali ed inviolabili dell'uomo, per loro natura preesistenti a qualsiasi riconoscimento formale, in ordine al quale questa Suprema Corte non ha sino ad ora avuto occasione di portare il proprio contributo. Ed invero non è configurabile nel nostro ordinamento una ipervalenza del diritto ad essere cittadino italiano tale da imporsi in termini assoluti al di là del quadro costituzionale di riferimento. Lo status di cittadino integra certamente una dimensione necessaria dell'uomo e della donna, connessa alla loro appartenenza ad una determinata comunità ed idonea a connotarne la personalità, che la nostra Costituzione accosta all'art. 22 alla capacità giuridica ed al nome, quali segni distintivi dell'individuo, e che costituisce fonte di diritti, di doveri e di situazioni soggettive di segno diverso, rilevanti tanto sul piano privatistico che su quello pubblicistico, E tuttavia non è qui in rilievo il diritto dì ogni persona ad avere una cittadinanza, enunciato anche nell'art. 15 comma 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, bensì una nozione di cittadinanza legale o formale, che trova la propria disciplina nella legge statale e può essere acquistata e perduta in presenza delle condizioni specificamente previste dal legislatore nazionale, cui è rimessa l'individuazione delle fattispecie acquisitive, estintive ed anche riacquisitive, nonché la determinazione del complesso dei diritti e dei doveri che concorrono a formare in una sintesi ideale lo statuto del cittadino. Dal quadro normativo che disciplina l'istituto della cittadinanza nell'ordinamento italiano si desume che la titolarità del relativo status è normalmente legata al criterio dello "ius sanguinis", rivestendo quello dello "ius soli" e gli altri criteri carattere meramente residuale, mentre le ipotesi di perdita dello status sono collegate al verificarsi di fattispecie complesse, nelle quali la volontà dell'individuo assume un ruolo preminente, ma non esclusivo (nella più recente legge n. 91 del 1992 tali ipotesi sono regolate dagli artt. 11 e 12), la cui previsione trova un limite invalicabile nel divieto di privazione per motivi politici posto dall'art. 22 Cost.

Nel senso della valorizzazione della volontà del soggetto si è espressa appunto la sentenza della Corte Costituzionale n. 87 del 1975, dichiarando l'incostituzionalità dell'art. 10 comma 3 della legge n. 555 del 1912 per avere la norma previsto la perdita della cittadinanza della donna coniugata con lo straniero indipendentemente dalla sua volontà.

E sempre nella prospettiva volontaristica si pone il richiamato art. 219 comma 1 della legge n. 151 del 1975, tuttora vigente, che rimette alla volontà della donna, con esclusione di ogni forma di automatismo - come di seguito si rileverà -, il riacquisto della cittadinanza perduta per effetto di matrimonio con lo straniero o per perdita della cittadinanza da parte del medesimo.

La legittimità nell'ordinamento di ipotesi normative di perdita della cittadinanza è peraltro indirettamente desumibile dalla stessa pronuncia della Corte Costituzionale n. 87 del 1975, che ha ritenuto l'illegittimità costituzionale dell'art. 10, comma 3, della legge n. 555 del 1912 non per la mera previsione del venir meno della cittadinanza in forza di legge, ma per il ravvisato contrasto di detta legge con il principio di parità tra i sessi ed all'interno della famiglia, secondo i parametri costituzionali degli artt. 3 e 29 Cost.

Se il quadro normativo di riferimento consente di escludere che la condizione di cittadino italiano si configuri come indisponibile ed indefettibile, si rende agevole la confutazione delle argomentazioni svolte nella richiamata sent. n. 15062 del 2000 nel considerare il relativo status segnato dai requisiti di assolutezza, non esauribilità, non estinguibilità e giustiziabilità in ogni tempo in cui il suo accertamento e la sua tutela vengano in rilievo, e per questo necessariamente influenzato dagli effetti della pronuncia di incostituzionalità n. 87 del 1975.

Come è noto, il fenomeno dell'esaurimento dei rapporti e delle situazioni giuridiche è ampiamente evocato dalla giurisprudenza e dalla dottrina ai fini della determinazione dei limiti di efficacia delle pronunce di incostituzionalità; si afferma generalmente che la dichiarazione di incostituzionalità di una legge spiega effetti anche in ordine ai rapporti anteriori, con la sola salvezza di quelli definiti in modo irretrattabile, e si tende a ravvisare in tale limitazione un elemento di composizione di due esigenze diverse, poste da un lato dal rilievo che la legge incostituzionale ha comunque spiegato con la forza sua propria efficacia nel tempo, fissando obblighi e riconoscendo diritti ed imponendo a tutti i cittadini la sua osservanza, e dall'altro lato dalla considerazione che proprio a causa della sua incostituzionalità essa ha potuto illegittimamente ledere le posizioni giuridiche di determinati soggetti.

I limiti alla retroattività delle decisioni costituzionali di accoglimento riassunti nella formula dei rapporti chiusi in modo irretrattabile o esauriti, in contrapposizione a quelli pendenti o giustiziabili (salva ovviamente l'espressa deroga contenuta nell'art. 30, comma 4, della legge 11 marzo 1953 n. 87, in ordine alla cessazione dell'esecuzione e ' 5 di tutti gli effetti penali della sentenza irrevocabile di condanna), sono vi riferiti in giurisprudenza e nella dottrina a situazioni o rapporti in relazione ai quali non sussiste la giuridica possibilità - da valutare in concreto, con riferimento alla disciplina sostanziale e processuale di settore - di alcuna azione o rimedio, nel senso che le norme che originariamente li regolavano non sono più applicabili per ragioni diverse dalla dichiarata incostituzionalità e per effetto della applicazione dì norme diverse, delle quali non è in questione la costituzionalità: ci si riferisce generalmente alle situazioni o ai rapporti divenuti consolidati ed intangibili a causa della preclusione nascente dal giudicato, o del decorso del termine per l'impugnazione di un atto amministrativo, o dell'esistenza di un atto negoziale o di altri fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale, quali la prescrizione e la decadenza (v. sul punto di recente, ex plurimis, Cass. 2000 n. 6486; 2002 n. 3745).

Peraltro nell'ipotesi in cui un rapporto giuridico, sorto e regolato da una norma "ratione temporis" non coinvolta dalla pronuncia di incostituzionalità, si sia estinto in forza di un evento cui l'ordinamento riconosceva la capacità di definirlo irretrattabilmente non è certamente ravvisabile una situazione di pendenza o non esaurimento del rapporto stesso; né una tale valutazione comporta violazione del precetto di cui agli artt. 136 Cost., comma 1, e 30, comma 3, della legge 11 marzo 1953, n. 87, non trattandosi di applicazione di norma dichiarata incostituzionale, ma di presa d'atto degli effetti giuridici prodottisi nel periodo della sua vigenza legittima.

Va al riguardo osservato che il principio cui la sent. n. 15062 del 2000 fa riferimento, più volte affermato nella giurisprudenza di questa Corte (v., tra le tante, Cass. 1972 n. 2146; 1972 n. 3100; 1973 n. 2634; 1978 n. 610), secondo il quale la qualificazione di un rapporto o di una situazione come esauriti non può essere determinata dalla applicazione della stessa norma dichiarata incostituzionale, ma da altra disciplina prevedente specifici fatti preclusivi, che impedisce al giudice di fare applicazione di quella dichiarata incostituzionale, appare impropriamente evocato in relazione ad ipotesi in cui il vizio della legge non sia originario, ma derivato dal mutamento del quadro costituzionale di riferimento, così che l'evento produttivo dell'estinzione del rapporto o della situazione giuridica si sia verificato in forza di una legge non incisa dalla dichiarazione dì incostituzionalità: è agevole per converso osservare che il fondare il giudizio di pendenza del rapporto sulla ritenuta ininfluenza della norma dichiarata illegittima per incostituzionalità sopravvenuta vuoi dire sostanzialmente assumere che la disposizione era illegittima sin dal momento della sua entrata in vigore, così attribuendo efficacia alla pronuncia di incostituzionalità oltre quel limite temporale che pure si era ritenuto di non rimettere in discussione.

In applicazione dei principi innanzi esposti, rilevato che secondo l'art. 10, Comma 3, della legge n. 555 del 1912 il matrimonio con lo straniero si poneva come evento di per sé dotato di forza estintiva dello stato di cittadinanza (in tal senso si è espressa la Corte Costituzionale con la sent. n. 87 del 1975, che ha ravvisato il fatto stesso del matrimonio - e non il rapporto matrimoniale, come erroneamente sostenuto nella pronuncia della prima sezione n. 15062 del 2000 - quale evento automaticamente deprivante lo stato di cittadina), ritenuto altresì che tale norma è da considerare legittima fino al 1 gennaio 1948, deve argomentarsi che la caducazione di tale effetto, unitamente alla norma che lo determinava, non può retrodatare oltre detta data, lasciando così fermo l'effetto estintivo prodottosi precedentemente.

In questa prospettiva la dichiarazione della donna coniugata con lo straniero prevista dall'art. 219, comma 1, della legge di riforma del diritto di famiglia, legge n. 151 del 1975 finisce con il rivestire una duplice ed alternativa funzione: meramente ricognitiva, nell'ipotesi in cui il matrimonio sia avvenuto dopo il 1 gennaio 1948, e pertanto il fatto estintivo debba considerarsi mai accaduto, e costitutiva ai fini del riacquisto della cittadinanza perduta, ove il vincolo coniugale sia stato contratto in epoca precedente l'entrata in vigore della Costituzione.

Ne risulta così certamente ridimensionata - ma non svuotata, come si verifica seguendo la diversa tesi qui contrastata, che per logica conseguenzialità è indotta ad attribuire alla dichiarazione in oggetto il solo effetto di attivare la procedura amministrativa necessaria per esercitare nuovamente i diritti di cittadinanza mai perduti o automaticamente riacquisiti e per adempiere ai relativi obblighi, così evitando anche di porre la questione di costituzionalità della stessa norma - la valenza di tale disposizione, che pur pubblicata ed entrata in vigore dopo la pubblicazione della sentenza di incostituzionalità n. 87 del 1975, ma approvata in precedenza, era certamente diretta nell'intenzione del legislatore a raccordarsi con la nuova disposizione dell'art. 143-ter c.c. - la quale, come già rilevato, contestualmente prevedeva che la donna perdesse la cittadinanza italiana con il matrimonio con lo straniero solo per sua espressa rinuncia - fornendo uno strumento che ponesse rimedio a quelle situazioni in cui in applicazione della legge precedente si era verificata la perdita della cittadinanza per matrimonio e consentisse il recupero dell'originario status. A seguito dell'intervento del giudice della legittimità delle leggi con la pronuncia n. 87 del 1975 la disposizione in esame, spiegando effetti in un tessuto normativo mutato, ha conservato la funzione di consentire il riacquisto della cittadinanza soltanto per le donne coniugatesi con cittadino straniero prima del 1 gennaio 1948, con esclusione di ogni automatismo (che peraltro, come hanno affermato queste sezioni unite nella sent. n. 12061 del 1998, avrebbe potuto comportare per le donne stesse conseguenze non volute, costringendole ad una successiva dichiarazione di rinuncia alla cittadinanza italiana, suscitando altresì delicati problemi sotto il profilo della certezza del diritto); è pertanto solo con riferimento alle ipotesi di matrimonio contratto dopo detta data, in cui la cittadinanza deve ritenersi ininterrottamente conservata, che va riconosciuta alla norma in discorso una funzione meramente ricognitiva. In applicazione dei suesposti principi deve ritenersi che in forza dell'art. 10, comma 3, della legge n. 555 del 1912, in vigore nel momento in cui la Miss contrasse matrimonio, si sia verificato il fatto automaticamente generatore dell'effetto estintivo della cittadinanza e che, avendo detto evento esaurito la sua efficacia nello stesso momento del suo verificarsi, la pronuncia di incostituzionalità successivamente intervenuta non abbia inciso su tale effetto.

Ne consegue l'insussistenza del presupposto previsto dall'art. 1, comma 1 n. 1, della legge n. 555 del 1912, nel testo risultante dalla pronuncia di incostituzionalità n. 30 del 1983, perché i ricorrenti possano definirsi cittadini italiani "iure sanguinis", non avendo la loro madre mai provveduto ad effettuare la dichiarazione di cui all'art. 219, comma della legge n. 151 del 1975.

Il ricorso deve essere in conclusione rigettato.

Non vi è luogo a pronuncia sulle spese di questo giudizio di Cassazione, non avendo svolto la parte intimata attività difensiva.


P.Q.M.


La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite, il 11 dicembre 2003.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2004.